Uno sparo, la fine di un mondo:
l’attentato di Sarajevo e il crollo dell’Impero asburgico
Echi, suoni indecifrabili che non riescono a diventare una voce, ogni cosa perde la sua luce, i contorni si sfrangiano e la memoria vaga senza fermarsi su nessuna immagine.
Spesso è meglio così, perchè la voce potrebbe far conoscere un dramma inquietante se fosse diventato patrimonio delle coscienze.
La Storia non apre la porta agli ospiti che non ha invitato. Sceglie protagonisti e comprimari, anche se gli esclusi, i Vinti, non sono da meno dei Viincitori.
E' ciò che accadde a quanti scelsero di battersi sotto le insegne dell'aquila bicipite.
Nell’agosto del 1914 migliaia di Europei vanno a combattere per l’Impero austroungarico, di cui sono ancora sudditi. Muovono verso il fronte quando ancora ci si illude che “prima che le
foglie cadano” il conflitto sarà finito. Invece non finisce.
E quando come un’epidemia si propaga in tutta Europa, il limes mitteleuropeo scivola nell’oblio, schiacciato dall’epopea di Verdun e del Piave.
Ma soprattutto sembra essere cassato, censurato dal presente e dal centenario della guerra mondiale, come se a quel fronte e a quei soldati fosse negato lo spessore monumentale della memoria.
Il nostro viaggio comincia da lì, da quella rimozione e da lì continua in forma di viaggio verso la Galizia, la terra di Bruno Schulz e Joseph Roth, mitica frontiera dell’Impero
austroungarico, oggi compresa fra Polonia e Ucraina.
Alla celebrazione ufficiale contrapponiamo l’evocazione di quelle figure ancestrali, in un’omerica discesa nell’Ade, con un rito che consuma libagioni e accende di piccole luci prati e
foreste, e attende risposta e respira pietà – la compassione che lega finalmente in una sola voce il silenzio di Redipuglia ai bisbigli dei cimiteri galiziani coperti di mirtilli.
L’Europa è lì, in quella riconciliazione con i morti che sono i veri vivi, gli unici depositari del senso di un’identità europea che già allora poteva nascere e oggi forse non è ancora
cominciata.